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Apr 2020Una volta, un monaco tibetano mi disse: “se impari ad ascoltare il suono del tuo respiro, capisci come stai vivendo.” Il respiro è proprio quello che questo virus ti toglie, anche in senso figurato, perché il respiro è vita. Una vita fatta di condivisioni, di abbracci, di polis, direbbe Aristotele.
Ci ritroviamo confinati nel recinto della nostra individualità, passando da un’esistenza universale al nostro esistere particolare. Soli e abbandonati – non a caso – “a noi stessi”, con i pensieri che diventano pesanti e le emozioni che fluiscono come un fiume in piena. Tutto questo rumore, però, non ci consente di avvertire che, soprattutto in circostanze come questa, ci stiamo muovendo tutti insieme, perché siamo tutti interconnessi, e non solo grazie alla tecnologia. Stesse speranze, stessa rabbia, stessa voglia di evadere, stessi silenzi, stessa necessità di sentirci parte di un tutto.
I romantici dicevano che l’isolamento è un’esperienza trasformativa. Ti fa provare nostalgia per quello che hai vissuto e ti fa immaginare quello che potrà essere. Il problema però è come vivi il presente.
Vai a chiederlo all’anziano che è solo a casa o alla persona che agonizza, lontana dai suoi cari, in un reparto di terapia intensiva.
Perché soffrire di solitudine non è l’essere soli in sé: è la non scelta.
Sembra che tu dipenda da tutto, mentre tutto dipende da te.
Dipende da come affronti l’isolamento che, è vero, può portare ad abulia, ansia, depressione, consumo eccessivo di zuccheri, alla compensazione di un vuoto apparente che, tuttavia, può essere la stessa socialità ad amplificare. Pensa alla depressione nelle metropoli globalizzate o a chi soffre di hikikomori, che trova libertà nella clausura di una stanza che affranca dalla gabbia, gonfia di aspettative, di un mondo esterno che lo toglie il respiro.
Il futuro della felicità, sostiene Zygmunt Bauman, comincia a casa. Allora che il tuo #iorestoacasa sia una forma di enstasi: come le tartarughe ritrai i sensi verso quella stanza che non hai mai avuto coraggio di esplorare. Fa paura guardare lì dentro, lo so. Forse più paura del virus e delle malattie. Perché è buia, zeppa di cose o tremendamente vuota.
Però. “Se l’individuo cura se stesso, cura il mondo”, diceva Jung. E forse questa è l’occasione giusta per occuparsi di se stessi e non pre-occuparsi di altro. Focalizzare l’attenzione sull’osservazione della propria vita, dei propri affetti, del proprio lavoro. Una nuda e minuziosa attenzione, sospendendo ogni forma di giudizio.
“Il tempo trascorso da soli è essenziale: può aiutarci a pensare con chiarezza, a respirare con calma e persino a sentire quello che abbiamo dentro di noi. E questo è quello che consideriamo la cosa più di valore in assoluto”, spiega il neuroscienziato John Cacippo, dell’Università di Chicago.
Ecco allora la chiave per stare da soli, in modo sereno e positivo: ritrovare il gusto di coltivare il proprio orto interiore. Non è facile, ma una volta che si inizia il viaggio, e si ritrova il gusto di stare con noi, il ritorno alla comunità sarà ancora più appagante, perché non cercheremo gli altri per colmare un vuoto, ma per condividere un pieno.
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Ti invito a seguire #InspiringWords, l’iniziativa di Ainem – Associazione Italiana di Neuromarketing, per scoprire, ogni giorno, l’impatto cognitivo- emozionale delle parole ai tempi del Coronavirus.