L’ansia dà spettacolo e noi applaudiamo
scritto da jadosa / in SENZA FILTRO /
Lei è lì, camuffata dai filtri di Instagram, idolatrata nei testi delle canzoni, vaporosa e calda nel respiro corto di una reazione che si fa attendere, timida nel suo vorrei ma non posso, sfamata dall’altro che emerge trionfante sulla punta di un iceberg che non vediamo in profondità, e che il surriscaldamento globale minaccia di sciogliere.
Non siamo formati per questa costante sovraesposizione, non siamo abituati a questa convivenza digitale che ci porta a spartire le nostre vite con persone che prima, almeno, l’occhio non vedeva o la vita selezionava.
Certo, anche ora possiamo non esserci, è vero. Possiamo scegliere chi seguire, dove e quando.
Ma non prendiamoci in giro: la nostra natura curiosa è lì che spia, vuole capire, indagare ed esplorare. Lo facevamo prima e lo facciamo, a maggior ragione, oggi con la facilità degli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione.
Ma non siamo pronti.
No, non siamo pronti a tutta questa umanità che ci cade addosso e invade il nostro microcosmo.
Ci opprime, ci soffoca, ci fa salire l’ansia.
Troppe cose da vedere, troppe cose da invidiare, troppi consigli da seguire, troppa diversità da metabolizzare.
È troppo per la nostra emotività.
Ecco allora che sale, dal basso arriva alla pancia, storce le budella e cadenza il fiato, riduce gli spazi, schiaccia il soffitto e noi sempre più compressi in tanti mai abbastanza.
Lei è più forte di noi perché, anche se non si percepisce, è presente, opacizzata dalle circostanze da difendere e dalle impalcature sociali.
È lei, l’ansia, l’emozione nascosta dietro a molti contenuti e, siamo noi, nel pieno della sua glitterata rappresentazione, ad applaudirla, storditi e accecati dal suo luccichio sornione e invalidante, nel teatro della vita, onlife, dentro e fuori dal web.
Ormai non si nasconde più. È nelle barre dei rapper, nelle melodie che richiamano la sua voce sincopata e malinconica, nell’esibizionismo narcisistico che sfida la propria fragilità, nelle apparenze che ricoprono un cuore che appena lo sfiori si liquefa e si disperde nel piatto della vita.
C’è chi la sfoggia come fosse un gioiello, chi cerca di esorcizzarla alimentando il sempre più drogato meccanismo della riprova sociale, che non importa se poi dura il tempo di una storia.
Il fiato corto attraversa una generazione Z che in maniera superficiale, ma non inconsapevole, racconta di psicofarmaci in grado di ridurre lo stato di agitazione claustrofobica all’interno di un corpo prigioniero di insicurezze.
Non deve essere facile però. Mi immedesimo in loro: penso all’esposizione a cui sono presto abituati, alla comparazione che non ha nulla a che vedere con quella forma di competizione che spinge a migliorarsi e invece ricerca (tanti) sì.
L’ansia di accettazione dei follower, delle visualizzazioni, della copertura, delle impressioni mi danno l’impressione che qualcosa, in questo meccanismo, ci stia riprogrammando le emozioni. E ahimè non tutti siamo in grado di mettere mano al nostro codice per correggerlo e ripulirlo.
Non è facile essere giovani (e spensierati) ai tempi dei social.
Ed è ancora più difficile essere genitori, ai tempi dei social.
Sì perché se i ragazzi hanno l’ansia di mostrare, tu da genitore hai paura di tutto quel mercanteggiare… anche perché poi devi gestire anche il tuo ammiccante rapporto con l’ansia.
Se non sei perfetto, se non sei ricco, se non sei un professionista con la propria gigantografia alle spalle, se non hai figli bellissimi e bravissimi, se non vai a fare weekend in luoghi esotici, se non trascorri le tue serate tra cocktail glam e cortesie per gli ospiti, ma che cavolo campi a fare?
Fallito.
Ti senti un fallito perché tu questa comunicazione così invasiva la stai conoscendo ora, non ci sei mica abituato; provi a proteggere i tuoi figli ma, a te, chi ti difende?
Credo ci sia un bisogno crescente di educazione, ma non all’utilizzo delle tecnologie. I nativi digitali ne sono un esempio. Abbiamo bisogno di un’educazione alle conseguenze emotive di tutta questa condivisione, dobbiamo imparare a decodificare e interpretare in modo più oggettivo le immagini che vediamo, dobbiamo imparare a convivere con tutta questa umanità iper connessa e spesso anche ostile nelle sue dispute.
Adesso non c’è solo la vicina da spiare ma un mondo intero, e questo ha delle conseguenze.
Siamo in un periodo sovraffollato, pieno di cose, di rumore, di scoperte, di emozioni che si liberano, di desideri che si soffocano, di percezioni che distorcono.
L’ansia che domina la nostra comunicazione, nel web e fuori dal web, è una manifestazione e un grido di aiuto.
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci educhi all’accoglienza di tutta questa diversità e umanità con la quale trascorriamo le nostre giornate, soprattutto online.
[da Tech Economy, 20/12/2018]