09
Giu 2012Sono tornata da tre giorni da un viaggio di lavoro in terra americana e, non più fusa dal fuso, sto rielaborando la mia esperienza, nuova e piena di stimoli.
Ero a Boston, una piccola città tra le metropoli a stelle strisce, piccola ma ricca di tradizioni sportive, dai Celtics ai Red Sox, e soprattutto culturali. Culla di prestigiose università come il MIT e Harvard, Boston mi ha piacevolmente accolto nella terra per antonomasia sinonimo di libertà .
La cosa che mi ha impressionionato di più, a parte il freddo apocalittico e la pioggia incessante, è stata la comunicazione spontanea del popolo americano. Ovunque vai, anche per strada, gli americani ti salutano, ti chiedono come stai, ti mostrano un sorriso…Sarà la loro proverbiale ipocrisia? Qualcuno interpreta, infatti, questa apertura come una ‘facciata’ stucchevole, di chiara matrice puritana…io, invece,nei miei 5 giorni bostoniani l’ho voluta leggere come un caloroso sole che illuminava le giornate uggiose di un giugno sulla costa atlantica.
E’ meraviglioso, per una persona che si occupa – tra le mille altre cose- di web vedere come il social media sia alla portata di tutti. Ovunque, anche nelle chiese, trovi bigliettini che ti invitano a mettere un ‘like’ sulla loro pagina Facebook, a twittare con loro o a condividere le tue esperienze insieme, online e worldwide.
Non è una novità , ma questo potere della comunicazione americana mi affascina. Terribilmente.
Sarà anche vero che loro, gli americani, rispetto a noi europei, a livello storico-culturale hanno meno da offrire, ma è altrettanto vero che possono insegnarci una cosa che spesso noi dimentichiamo: l’essere parte di qualcosa, l’amore per la propria patria, quel senso di collettività che sempre meno respiro dalle mie parti.
Negli Stati Uniti il cambiamento non è una cosa che spaventa come qui da noi. Vedi persone iscriversi all’università a 40 anni e iniziare una nuova carriera, così, di punto in bianco. Certo, le nostre istituzioni, le nostre tradizioni non permetterebbero mai a nessuno di laurearsi, per esempio, in legge a 40 anni e iniziare proficuamente ed immediatamente a lavorare…fanno fatica quelli che la laurea l’hanno presa a 25 anni e a 40,magari, sono ancora a portare il caffè al proprio capo…
E poi c’è la meritocrazia, quella di stampo anglosassone, quella dimenticata dal sistema delle lobby e del nepotismo nostrano, quella che permette a chiunque, se ha valore, determinazione e capacità di farsi strada, di fare carriera.
Ma c’è da lavorare. Lavorare duramente per conquistare la propria posizione…un’etica in contrasto con il nostro ozium. Che, comunque, ben venga. Qui lavori come un ossesso e poi alla fine cosa ti ritrovi? Spesso nulla di più di quel che avevi prima…
Sarà che ho avuto un’educazione della serie self made woman, ma il loro modus vivendi lo sento molto vicino al mio. I miei genitori non sono stati i classici genitori italiani chioccia e iperprotettivi. Mi hanno insegnato a lavorare e lottare per conquistare i miei obiettivi, mi hanno dato estrema libertà a patto di rispettare delle regole e non hanno mai soffocato le mie idee, anche quelle più strane. Mi hanno trasmesso il valore e le potenzialità del mio agire anche se, spesso, tutte queste aspettative si sono caricate di un istinto tendente al perfezionismo, al dover dimostrare di poter fare, generando insicurezza, quella che spesso traspare anche nelle azioni dei miei amici americani.
Non vedo l’ora di tornare a volare in USA, ma questa volta in compagnia del socio. Ci siamo ripromessi che New York sarà la nostra prima tappa americana insieme…non vedo l’ora!